ILVA,LA MORTE INFINITA [prima
parte]
GIA’ NEL 2001 I CRIMINALI CONTRO L’UMANITA’
FURONO POSTI SOTTO SEQUESTRO, A LORO INSAPUTA E DEL GOVERNO, GLI UNICI A SAPERLO
ERANO I MORTI DI TARANTO
Il gruppo industriale guidato da Emilio Riva
acquista le acciaierie “Ilva”, sino ad allora in mano pubblica, nel maggio del
1995.
Tra le priorità stabilite nell’atto di
acquisizione v’erano gli interventi da eseguirsi sulle batterie del reparto
cokeria, già all’epoca piuttosto obsolete ed usurate
Nell’agosto del 1996, in una sua relazione
tecnica predisposta nella sua qualità di funzionario del “Dipartimento di
prevenzione” della A.s.l. TA/1, il dott. Giua evidenziava la rilevante presenza,
all’interno del reparto cokeria, di idrocarburi policiclici aromatici [
“i.p.a.”], sostanze cancerogene derivanti dai processi di distillazione del
carbon fossile, alla cui azione erano particolarmente esposti coloro che lì
prestavano la loro attività lavorativa, 629 persone, tra dipendenti dell’”Ilva”
e delle società appaltatrici.
Pur dando atto di alcuni miglioramenti
introdotti nel tempo dall’azienda, il dott. Giua faceva osservare l’obsolescenza
di tali impianti ed il carattere ancora manuale di molte operazioni previste dal
ciclo operativo.
Annotava, infine, come, nonostante l’espressa
previsione in tal senso contenuta nel D.P.R. n° 203 del 1991, le batterie di
forni a coke fossero per lo più sprovviste di dispositivi di aspirazione dei
fumi all’origine [presenti, più precisamente, solo su quelle nn. 7, 8 e
11].
Il 30 giugno 1997 interveniva il primo atto di
intesa tra l’azienda [all’epoca “ILVA LAMINATI PIANI s.p.a], rappresentata da
Emilio Riva, imputato poi e processato nel 2009 per responsabilità su danni
ambientali/salute pubblica, allora presidente ed amministratore delegato della
società, e la Regione Puglia.
In quell’atto, si concordava anzitutto:
“circa l’urgente necessità e l’indispensabilità
di procedere in tempi congrui alla riduzione delle emissioni in atmosfera
derivanti dal centro siderurgico di Taranto, tramite l’utilizzazione di
tecnologie che consentano di contenere le stesse, nel medio periodo, a valori
significativamente inferiori a quelli previsti dalla attuale normativa”.
Si dava atto, quindi, del fatto che l’”Ilva”
avesse individuato, tra i “campi di intervento in via prioritaria”, quello della
“riduzione delle emissioni diffuse della cokeria”; e si conveniva, pertanto, che
l’azienda dovesse intervenire “con l’utilizzo delle migliori tecnologie per la
riduzione delle emissioni in atmosfera”, mediante, tra gli altri, dei “sistemi
per la limitazione delle emissioni derivanti dal processo di distillazione del
carbon fossile in cokeria” [carteggio tra il “P.m.p.” della A.s.l. e l’”Ilva”,
prodotto dal P.M. all’udienza del 16.10.2006].
Nella convenzione Ilva/Regione Puglia, si dava
atto dell’indagine in corso da parte dell’”E.n.e.a.”, su commissione del
Ministero dell’Ambiente.
Gli esiti di quella indagine verranno poi
recepiti e usati, costituendone l’impalcatura tecnico-scientifica, nel D.P.R.
del 23 aprile 1998, con il quale, richiamando le delibere del Consiglio dei
Ministri del 30 novembre 1990 e dell’11 luglio 1997, che avevano dichiarato e
confermato il territorio della provincia di Taranto quale “area ad elevato
rischio ambientale”, veniva approvato il “Piano di disinquinamento per il
risanamento del territorio della provincia di Taranto”. Anche in tale D.P.R.,
tra i molti interventi previsti a carico degli enti pubblici e dei vari soggetti
economici operanti nell’area, una parte non secondaria riguardava quelli
relativi alla cokeria “Ilva”.
Le ricadute ambientali di tali impianti, però,
non registrarono alcun miglioramento; e, tra continui botta e risposta tra
“P.m.p.” della A.s.l. e dirigenza “Ilva” [carteggio tra il “P.m.p.” della A.s.l.
e l’”Ilva”, prodotto dal P.M. all’udienza del 16.10.2006], si arriva al 18
novembre 2000.
Proprio in questa data con nota n° 753/00, il
dirigente coordinatore del “P.m.p.”, dott. Nicola Virtù, scriveva al competente
Assessore regionale ed al Sindaco di Taranto, informandoli che:
“frequenti e ricorrenti sono le segnalazioni,
da parte di questo Servizio nei confronti della ILVA s.p.a., in merito ad
emissioni diffuse e/o convogliate visibilmente eccedentarie dall’impianto
produzione coke [cokeria], relativamente… in particolare alla fase di
distillazione del fossile ed alle fasi di sfornamento e spegnimento del
coke”.
Il dott. Virtù proseguiva:
“… non può non evidenziarsi la non
transitorietà di tali situazioni, che incidono significativamente sul carico
inquinante emesso dall’area cokeria, con ovvi riflessi sulla sostenibilità
ambientale dell’area cittadina circostante. Non può sottacersi il permanere di
situazioni operative deficitarie, da ricollegarsi sostanzialmente a carenze
strutturali legate alla vetustà dei forni delle batterie 3/6 nonché alla
mancanza di un impianto di aspirazione e depolverazione delle emissioni diffuse
nella fase di sfornamento coke.”
Il dott. Virtù informava anche Regione e
Sindaco di come il più basso regime di funzionamento delle batterie nn. 3-6
fosse compensato con un’elevazione di quello delle restanti batterie, con
l’effetto di determinare:
“emissioni eccedentarie dai relativi camini per
presenza di incombusti”,[…]: ” non può prescindersi o da una riduzione della
produzione di coke con il fermo delle batterie 3/6 o, in alternativa, dalla
sostituzione delle stesse con nuove batterie, con un conseguente riequilibrio
dei ritmi di cokefazione,… e dalla installazione dell’annesso sistema di
depolverazione allo sfornamento…”. […] “… le emissioni di che trattasi
attengono ad inquinanti, oltre i primari convenzionali, con notevole valenza
igienico-sanitaria tipo idrocarburi policiclici aromatici, benzene, particolato
PM10, PM2,5.”
Inizia una serie di richiami ufficiali e
delibere da parte dell’allora sindaco di Taranto, dott.ssa di Bello, nei
confronti dell’Ilva SpA, con i quali, per mesi viene ordinato ai dirigenti delle
acciaierie di porre immediato rimedio all’obsolescenza dei forni cokeria non a
norma, si richiedeva all’Ilva stessa di provvedere ad informare gli uffici
regionali e del sindaco di quanto concretamente avesse intenzione di porre in
essere.
La dirigenza Ilva rispondeva, è vero, anche
tempestivamente, ma solo con giustificazioni e dilazionando i tempi.
Alla luce della palese immobilità della
dirigenza Ilva, il sindaco costituisce un “Comitato Tecnico Misto” [dott. Virtù
facente parte].
Il Comitato rilevò non solo “alcun
miglioramento dei dodici parametri tecnico-impiantistici individuati come
riferimento”, ma: “un netto peggioramento complessivo degli stessi, già in
partenza ritenuti tutti al di sotto dell’indice di performance di semplice
accettabilità”; per queste ragioni chiese:
“ulteriori misure per contenere e ridurre le
emissioni di fumi e/o gas densi generati durante sia le fasi di carica e
sfornamento, sia dall’area bariletti”; la necessità di adottare “parametri di
marcia meno spinti”, che “possono contenere in modo significativo le emissioni
diffuse”; l’inottemperanza all’obbligo di “rigoroso rispetto delle pratiche
operative di manutenzione e pulizia”, cui l’”Ilva” si era impegnata; la vaghezza
del programma di ricostruzione delle batterie in questione, presentato
dall’azienda nell’aprile precedente.
L’Ilva a questo punto ricevette diffida dal
Sindaco in data 23 aprile 2001, i dirigenti fecero finta di non vederla.
Il 23 maggio 2001, con ordinanza n. 244, la
dott.ssa Di Bello, ingiunge al direttore tecnico dello stabilimento:
la “immediata sospensione dell’esercizio delle
batterie 3-6 della cokeria”.
Tale ordine era poi ribadito, stante l’inerzia
dell’”Ilva”, con un’ulteriore ordinanza, la n° 291 dell’11 giugno seguente.
Entrambe le ordinanze, peraltro, venivano impugnate dalla società dinanzi al
T.A.R. della Puglia – sez. di Lecce.
Sia la Procura della Repubblica, con suoi
esperti inviati in ispezioni ai reparti Ilva non a norma, che il “Comitato
Tecnico Misto”, rilevarono la dolosità della dirigenza dello Stabilimento nel
non aver compiuto, ancora, alcuna azione atta a migliorare le emissioni
letali.
Ispettori del Tribunale e Comitato, chiedevano
alle competenti autorità giudiziarie un intervento ungente per la salvaguardia
della salute pubblica e dei lavoratori all’interno degli impianti.
Il 10 settembre 2001, su richiesta Procura
della Repubblica del 20 luglio, il GIP del Tribunale, dispone il sequestro
preventivo delle batterie di forni nn. 3-6, in relazione ai reati che poi
porteranno a processo Emilio Riva e la sua dirigenza.
[continua…]
Lucio
Galluzzi
http://luciogalluzzi.ilcannocchiale.it/2012/08/22/ilvala_morte_infinita_prima_pa.html
ILVA, ALLA DE-RIVA – DALLE INTERCETTAZIONI
DELL’INCHIESTA EMERGE IL “COINVOLGIMENTO” DEI RIVA – LA MAZZETTA DA 10.000 AL
PERITO DEL PM POTREBBE ESSERE SOLO LA PUNTA DI UN ICEBERG – SULL’AUTORIZZAZIONE
AMBIENTALE LA FINANZA ANNOTA: “EMERGE COME ANCHE A LIVELLO MINISTERIALE FERVANO
I CONTATTI NON PROPRIO ISTITUZIONALI PER AMMORBIDIRE ALCUNI COMPONENTI DELLA
COMMISSIONE..” – LA RIUNIONE CON VENDOLA…
Una nuova tempesta giudiziaria potrebbe abbattersi
sull’Ilva. In questo caso non si tratta di disastro ambientale, gli indagati
sono incriminati per corruzione in atti giudiziari. In un rapporto della Guardia
di Finanza si riportano decine di intercettazioni telefoniche dalle quali emerge
che non solo Girolamo Archinà – l’uomo delle relazioni istituzionali dell’Ilva
mandato a casa la settimana scorsa dal presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante – ma
anche la proprietà, attraverso Fabio Riva, figlio del patron Emilio, era
perlomeno consapevole della corruzione di un perito nominato dall’accusa, e dei
tentativi di pilotare l’approvazione delle autorizzazioni ambientali.
La diossina degli altri Per la Finanza, coinvolti
nell’«attività corruttiva» del perito del pm, Lorenzo Liberti, ci sarebbero
dunque Archinà e Fabio Riva, ma un ruolo l’avrebbe avuto pure l’ex direttore
dell’Ilva di Taranto, Luigi Capogrosso. Liberti per 10.000 euro avrebbe
«addolcito» una consulenza negando che le quantità di diossine che hanno portato
all’avvelenamento di centinaia e centinaia di pecore e capre, poi abbattute,
erano prodotte dall’acciaieria.
È il 31 marzo del 2010, il passaggio di una busta
con i soldi tra Archinà e il professore Liberti è avvenuto cinque giorni prima
(documentato dagli 007 della Finanza) in un autogrill sulla Taranto-Bari, ad
Acquaviva delle Fonti. Archinà parla con il ragionier Fabio Riva per
raccontargli l’esito dell’incontro del giorno prima tra Liberti e il direttore
dello stabilimento, Capogrosso. Riva: «Ieri come è andata?». «È andata secondo
le aspettative…». Riva: «Come siamo messi?». Archinà: «Per quanto riguarda
l’aspetto delle bricchette, la prossima settimana ci fa avere tramite un
professore del Politecnico di Bari…».
Girolamo Archinà, annotano gli uomini della
Finanza, «dice al Fabio Riva che consegnando in anteprima le analisi, potrà
iniziare a lavorare (sul Liberti) affinché non nasconda che il profilo è
identico, bensì che attesti che comunque le emissioni di diossina prodotte dal
siderurgico siano in quantitativi notevolmente inferiori a quelli accertati
all’esterno».
Una succulenta occasione Emilio e Fabio Riva, padre
e figlio, si confessano al telefono. E Fabio conferma al padre che conosceva la
perizia
Liberti ben prima della richiesta di incidente
probatorio del 28 giugno del 2010. Fabio: «La perizia tecnica sembrava andasse
tutto bene… non lo so che caz… è successo…». Sempre il figlio rivolgendosi
al padre: «Però è succulenta la cosa di beccare un Riva giovane… eh papà…».
Emilio Riva: «Ma non c’è niente… tanto hanno dimostrato che l’abbattimento
delle pecore non c’entra con la nostra diossina, ecco… è quell’altra
causa…».
L’Aia addomesticata Che fatica ottenere l’Aia,
l’autorizzazione integrata ambientale, che adesso il ministro dell’Ambiente
Corrado Clini vuole aggiornare prima possibile. Stiamo parlando di quell’Aia
concessa il 4 agosto del 2011 dopo un inter burocratico di ben sette anni.
La commissione che la
istruisce si chiama l’Ipcc, e Giorolamo Archinà si dà un gran da fare per
ottenere l’autorizzazione. Scrive il rapporto della Finanza: «L’effettiva e
buona riuscita dei contatti si rileva, come si accennava in precedenza, dai
costanti aggiornamenti che egli fornisce ai vertici aziendali, con i quali
ovviamente condivide le strategie da porre in atto, recependo le direttive che
di volta in volta vengono impartite. Nello specifico emerge come anche a livello
ministeriale fervano i contatti non proprio istituzionali per ammorbidire alcuni
componenti della Commissione Ipcc Aia; con i predetti le relazioni vengono
mantenute da tale Vittoria Romeo e in parte anche dall’avvocato
Perli».
I parchi scoperti Vittoria Romeo è al telefono con
Fabio Riva: «Allora dicevo ad Archinà, se Palmisano, che è quello della Regione,
tira fuori l’argomento in Commissione, siccome l’Arpa (Agenzia regionale
protezione ambientale) deve ancora dare il parere sul barrieramento e a noi
serve un parere positivo per continuare a dimostrare che non dobbiamo fare i
parchi…». Fabio Riva: «È chiarissimo. Però siccome noi non possiamo
assolutamente coprire i parchi perché non è fattibile… tanto vale rischiarla
così». Vittoria Romeo: «Valutiamo se la cosa in questi giorni la teniamo al
livello di Ticali, Pelaggi, Mazzoni (presidente e membri della commissione
ministeriale Ipcc, ndr) oppure…». Fabio Riva: «No, picchiamo… picchiamo
duro…»
Che termini da combattimento. Del resto quando il
direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, firma una relazione che denuncia che i
monitoraggi dell’aria nel quartiere Tamburi – siamo nel giugno del 2010 – hanno
rivelato la presenza di benzoapirene nell’aria che proveniva dalle cokerie
dell’Ilva e che in assenza di un ridimensionamento di quelle emissioni, si dovrà
ridurre drasticamente la produzione e condizionarla alle condizioni meteo, la
reazione dell’Ilva promette sfracelli. Girolamo Archinà dice ad Alberto
Cattaneo, ex consulente esterno oggi dirigente Comunicazione dell’Ilva:
«Dobbiamo distruggere Assennato».
Riva serpente C’è un incontro tra il governatore
della Puglia Nichi Vendola, Fabio Riva, Girolamo Archinà e il direttore
dell’Ilva Capogrosso, tra le carte della Finanza. Fabio Riva ne parla con il
figlio Emilio (omonimo del nonno), il quale suggerisce al padre: «Facciamo un
comunicato stampa fuorviante, tanto “per vendere fumo” dicendo che va tutto bene
e che Ilva collabora con la Regione».
Archinà con la linea della «trasparenza» non va
molto d’accordo. Vuole comprarsi i giornalisti, tagliargli la lingua. «Mi sto
stufando perché fino a quando io so’ stato accusato di mantenere tutto sotto
coperta, però nulla è mai successo… nel momento in cui abbiamo sposato la
linea che sicuramente è più corretta, della trasparenza… non ci raccogliamo
più… La situazione è complicata e se non si ha l’umiltà di dire ritorniamo
tutti a nascondere tutto…».
Archinà dice a Fabio Riva che «consegnando in
anteprima le analisi potrà iniziare a lavorare sul professor Liberti affinché
attesti che le emissioni sono notevolmente inferiori» Fabio Riva al padre
Emilio: «La perizia tecnica sembrava andasse tutto bene… non lo so che è
successo». Il padre: «Tanto hanno dimostrato che non c’entriamo con le
pecore»
Dopo gli incontri istituzionali con Nichi Vendola,
Fabio Riva parlando con il figlio dice: «Facciamo un comunicato per vendere fumo
in cui diciamo che tutto va bene e collaboriamo» Quando Giorgio Assennato
direttore dell’Arpa firma una relazione fortemente negativa sui valori dell’aria
nel quartiere Tamburi, Archinà dice: «Dobbiamo distruggerlo»
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/ilva-alla-de-riva-dalle-intercettazioni-dellinchiesta-emerge-il-coinvolgimento-dei-riva-la-mazzetta-42763.htm#Scene_1
Emilio Riva. Ilva, la vera
storia dell’uomo accusato di avvelenare una città
Ritratto del fondatore dell’azienda siderurgica di
Taranto
A un certo punto inizia a parlare Calisto Tanzi. I testimoni non si
ricordano le esatte parole del fondatore della Parmalat, ma il senso
dell’intervento era questo: «Noi imprenditori» diceva rivolgendosi ai membri
della giunta della Confindustria «dobbiamo modernizzarci, usare la borsa, fare
più finanza…».
Finito il discorso, una voce lo gela: «Non sono d’accordo». È
Emilio Riva, uno che di solito parla poco. Tanzi replica irritato, ma con
tono fermo Riva lo zittisce così: «Vede, signor Tanzi, se io la prendo per i
piedi e la scrollo, dalle sue tasche esce tanta, tanta carta. Se invece prende
me per i piedi, dalle mie tasche escono tanti, tanti soldi. Ecco qual è la
differenza tra noi due».
La scena risale alla metà degli anni Novanta e scolpisce alla perfezione il
carattere di un uomo che, senza tanti grilli per la testa, fedele a un modello
industriale molto, fin troppo tradizionale, è ancora lì, con il suo gruppo
siderurgico, a guardarci dall’alto dei 10 miliardi di fatturato, dei
36 stabilimenti nel mondo, dei quasi 22 mila dipendenti.
Nessuno
parlava di Riva mentre Tanzi finiva travolto dai suoi castelli di carte, nessuno
si ricordava di lui mentre i Falck dalla vita mondana chiudevano gli altiforni
di Sesto San Giovanni o il Lucchini dei salotti buoni vendeva gli impianti ai
russi della Severstal. Grandi dinastie dell’acciaio cancellate dalla cronaca
economica e lui sempre lì, sempre più grande. Inquisito, ma lì.
Se non ci fossero stati gli scontri che periodicamente lo hanno visto
protagonista a Cornigliano, per l’inquinamento provocato dagli ex
impianti Italsider a Genova, o per il disastro ambientale dell’Ilva di Taranto,
probabilmente a nessuno verrebbe in mente che qui in Italia abbiamo il quarto
imprenditore siderurgico d’Europa. Stare sotto il pelo dell’acqua, del
resto, è la sua regola. Insieme al lavorare duro, usare il denaro con
parsimonia, cogliere le occasioni. Ora, nella sua casa di Milano, dove è agli
arresti domiciliari per la vicenda Ilva, sicuramente si sta rodendo il fegato.
Anche perché da questa storia qualche dubbio sulla gestione del gigante
d’acciaio sarà venuto pure a lui.
La saga della famiglia inizia nel 1954: Emilio Riva, nato nel 1926 a Milano e
figlio di un commerciante in scarti ferrosi, avvia con il fratello
Adriano un’attività di commercio di rottami, che vende ai siderurgici
bresciani. Trasporta i pezzi di ferro su un vecchio camion Dodge. Ma già nel
1957 inizia a produrre acciaio a Caronno Pertusella, a nord di Milano.
L’adozione, prima dei concorrenti, della colata continua diventa la più
importante fonte di vantaggio competitivo della nuova impresa. Riva diventa il
re del tondino, cresce e mette da parte i soldi per accaparrarsi un’acciaieria
dietro l’altra.
«Non compro mai quando va bene, compro quando va male» spiega Emilio
in una delle rarissime interviste. Negli anni Settanta è già arrivato
all’estero, con acquisizioni in Spagna e Francia. Poi la crisi mondiale
dell’acciaio investe la siderurgia pubblica europea. Riva ne approfitta subito:
entra nella gestione di Cornigliano, compra un impianto nell’ex Germania Est e
quindi, nel 1995, si aggiudica l’Ilva di Taranto. Il gruppo diventa enorme, lo
stile non cambia. «Quando l’Ilva si chiamava Italsider» ricorda un imprenditore
di Taranto, che lavorava per lo stabilimento siderurgico «i grandi manager
pubblici venivano qui in città con una sfilza di auto blu e un codazzo di
segretarie. Grandi parole in un convegno e via, tornavano a Roma. Quando invece
incontrai per la prima volta uno dei figli di Riva, accadde all’interno dello
stabilimento: arrivò a bordo di una vecchia Panda di servizio». «La presenza
della famiglia sugli impianti produttivi, a contatto con tecnici e operai» dice
un manager del gruppo «è una costante. Una cultura del lavoro che deriva dalla
figura di Emilio, adottata poi da figli e nipoti».
La famiglia è molto importante per i Riva. «Il pranzo di Natale ha un valore
simbolico forte» racconta un collaboratore di Emilio, che ha sei figli,
due femmine e quattro maschi. Il più grande, Fabio, è il vero numero due
del gruppo; Claudio, dal carattere spigoloso, è uscito dalle attività
siderurgiche e segue quelle armatoriali; Nicola, finito agli arresti con
il padre, è l’uomo della produzione; e Daniele guida lo stabilimento di
Genova. In azienda lavorano pure i nipoti Angelo e Cesare. E le
femmine? Riva preferisce tenere lontane le donne dall’azienda: le figlie fanno
altro, le nuore sono invitate a non salire ai piani superiori della sede
milanese dove ci sono gli uffici dei mariti. Ma saranno delle donne, le «donne
di Cornigliano», a fargli rimangiare la promessa che lui a Genova non avrebbe
mai chiuso l’altoforno. Due anni dopo la chiusura ammetterà: «Riconosco che nel
centro di Genova un altoforno e una cokeria non possono esistere».
Se l’obiettivo è diventare più grandi («Ho sempre aperto e comprato fabbriche
e non ne ho mai chiusa una» si vanta Riva), il metodo per realizzarlo poggia su
alcuni punti fermi: una gestione efficiente affidata prima di tutto ai figli
e ai tecnici di provata fiducia, niente top manager da business school. Poi
attenzione maniacale ai costi: se ancora oggi Emilio, stipendiato come se
fosse un qualsiasi dirigente, si attarda in ufficio, è lui che spegne le luci al
terzo piano del quartier generale in fondo a viale Certosa, Milano.
Ed è proprio grazie alla capacità di mettere fieno in cascina che il gruppo
riesce a resistere anche nei momenti più difficili. Come quello che stiamo
vivendo ora: si produce di meno ma si riempiono comunque i piazzali di acciaio,
pronti a venderlo quando l’economia tornerà a tirare, sbaragliando ancora una
volta gli avversari. Intanto Riva si tiene buona la politica con
finanziamenti ai partiti, di destra e di sinistra, e con l’acquisto di una quota
nell’Alitalia dei «patrioti», mentre versa denari alla parrocchia di
Tamburi, il quartiere più colpito dall’inquinamento dell’Ilva di Taranto, e
forse, come sembrano testimoniare le ultime intercettazioni telefoniche,
anche tangenti per addomesticare i risultati delle analisi ambientali.
Disposto a tutto pur di continuare a fare acciaio. In silenzio.
Con i dipendenti alterna paternalismo e durezza: numerose le cause per
comportamenti antisindacali. Ma anche attestati di stima e di ammirazione da
parte dei lavoratori e dei fornitori. Certi giornalisti vengono manipolati,
forse anche pagati, come rivelano le intercettazioni. Lo stile della casa lo fa
intuire il giovane Emilio, omonimo del nonno, che parlando col padre Fabio dopo
un incontro con Nichi Vendola suggerisce: «Facciamo un comunicato stampa
fuorviante tanto per “vendere fumo”, dicendo che va tutto bene e che l’Ilva
collabora con la regione».
Il patriarca rilascia poche interviste. E, quando si lascia convincere da una
società di comunicazione ad aprire le porte dell’Ilva di Taranto a un
giornalista, se ne pente immediatamente. Accade nel 2006, quando Panorama
spedisce un suo inviato per raccontare come funziona la più grande fabbrica
d’Europa. L’inviato, Angelo Pergolini, non può fare a meno di annotare
l’alta incidenza di infortuni (oggi molto diminuiti) e scrive: «Quando tira
vento, e a Taranto lo scirocco soffia spesso e forte, dai parchi (e dai nastri
trasportatori che li collegano al porto) si alzano nuvole impalpabili,
coprono il rione Tamburi, periferia di case popolari cresciuta parallelamente
allo stabilimento da cui è divisa solo da un muro; scendono sugli edifici
fatiscenti della città vecchia; si posano sulle vetrine eleganti di via
D’Aquino, cuore dello shopping e dello struscio. Lasciano ovunque la stessa
scia grigia e velenosa, penetrano dappertutto: polmoni compresi». Dopo la
pubblicazione del reportage, la società di relazioni pubbliche viene
licenziata.
Il fatto di essere diventato il 23esimo produttore mondiale di acciaio fa di
Riva un bravo imprenditore? Margherita Balconi, docente nella facoltà di
ingegneria dell’Università di Pavia, è un’esperta del settore. Autrice fra
l’altro del libro La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico
e incentivi del mercato (Edizioni Il Mulino), la professoressa ha scritto in
particolare un volume per il gruppo: Riva 1954-1994. Il percorso
imprenditoriale della famiglia Riva. Il suo giudizio è abbastanza
critico: «Fino all’acquisto dell’Ilva Riva è stato soprattutto un abile
gestore di impianti e un imprenditore capace di cogliere l’opportunità di
acquistare stabilimenti in crisi e di trasferirvi i propri metodi molto efficaci
di gestione aziendale. È stato anche uno dei primi siderurgici in Europa ad
avviare un importante processo di internazionalizzazione. Ma l’acquisizione,
estremamente coraggiosa, dell’acciaieria di Taranto ha spinto il gruppo su di un
terreno tutto nuovo».
Secondo Balconi, gestire uno stabilimento di quelle dimensioni, specializzato
nel campo dei laminati piani di qualità, avrebbe comportato dei metodi di
gestione diversi da quelli che avevano costituito la forza dei Riva. Le altre
imprese europee che gestivano grandi impianti a ciclo integrale (in particolare
la francese Usinor, oggi acquistata dalla Mittal) capivano l’importanza, per
esempio, di fare ricerca e di investire per ottenere tipi di acciaio
sempre più sofisticati.
Una delle prime cose che invece ha fatto Riva
dopo l’acquisto è stata allontanare dallo stabilimento i ricercatori del Centro
sviluppo materiali (Csm) che stavano conducendo ricerche su un impianto pilota
molto innovativo: tre giorni e poi fuori, senza neanche lasciare finire gli
esperimenti. Con il metodo Riva i conti sono migliorati, ma la qualità no. Tanto
è vero che l’Ilva serve ancora il mercato automobilistico, ma non rifornirebbe
più l’acciaio per le carrozzerie (che deve essere visivamente perfetto). «E a
quanto pare non fa parte della loro cultura innovare in funzione dei
miglioramenti ambientali» commenta Balconi.
Alcuni sostengono che dietro l’uscita di Claudio dall’Ilva ci sia stato uno
scontro proprio sul tema della qualità: il figlio ne voleva di più, il padre non
era d’accordo. Ora forse Emilio dovrà cambiare idea, mentre l’azienda tratta con
la Siemens per introdurre tecnologie più moderne e pulite. Anche nelle famiglie
d’acciaio si può aprire una crepa.
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